Stavo
incominciando
a scrivere
queste
righe quando sono successi i
fatti di ieri a Parigi. Però il senso del ragionamento non
cambia.
Da
anni tanti
parlano di “rete”,
ma
in pochissimi casi si va oltre la parole. Si
fa una
confusione
tra il web,
libero e aperto, e i social
network
come
Facebook
o
Instagram,
privati e commerciali; si
subisce
una digitalizzazione
spesso macchinosa della pubblica amministrazione, dei servizi, della
scuola,
in
cui la
tecnologia
è mortificata dall’approccio
burocratico e miope
di umani ignoranti;
si
scambia per partecipazione la presenza
narcisistica e rissosa
nelle discussioni on line di individui isolati gli uni dagli altri o
raggruppati in rigide
tifoserie
contrapposte, che si gridano addosso e non si ascoltano, in
una
competizione continua,
improduttiva e frustrante; si
spaccia per
“democrazia diretta” la
politica improvvisata
su piattaforme informatiche
controllate
non si sa come e non si sa da chi; si
generalizzano certi comportamenti
osservati
in settori della popolazione, soprattutto i giovani, con descrizioni
che sostituiscono e
anzi escludono
la comunicazione
con i diretti interessati.
Credo
che il problema
principale, culturale, umano, politico, sia l’incapacità dei più,
nelle valutazioni sul mondo e sulla vita, di tenere conto
dell’insieme che
sta intorno ai singoli episodi, di comprendere
proprio, concettualmente,
la rete
in cui tutti ci muoviamo, di rapporti sempre più intrinsecamente
legati, anche quando crediamo
di essere e di fare fa soli.
Sull’argomento,
sto scrivendo più diffusamente, ma qui vorrei sottolineare in
particolare un aspetto, che emerge proprio in questi giorni con il
movimento francese dei gilè gialli.
La
rete
globale ha in sé, intrinseco,
un
potere enorme.
Può
bastare una
comunicazione veloce sui social network
– con tutti i loro limiti, sono un mezzo efficacissimo per far
viaggiare l’informazione per tutto il pianeta – e si
può mettere in moto un movimento
vasto e inarrestabile, la cui forza
sta nella sua struttura
orizzontale,
cioè senza una direzione centralizzata,
e per questo difficilissimo da contrastare.
Stefano
Mancuso
nel suo Plant
Revolution
fa l’esempio dei conquistadores
spagnoli,
che con piccolissimi eserciti conquistarono
i potenti imperi di Aztechi e Incas,
ma poi non
furono in
grado di
sottomettere
gli Apaches,
le cui tribù non avevano un capo.
Una
differenza non da poco è che la organizzazione orizzontale degli
Apaches funzionava, cioè era un modo di essere delle loro comunità,
mentre la
mobilitazione orizzontale dei gilèt gialli è un fatto episodico,
che si svolge in un tempo e rispetto ad obiettivi limitati e
circoscritti. Non è
– come si
sarebbe detto
un
tempo - “organica”
a un progetto, non
c’è strategia,
ma tutto
si risolve in una
rivendicazione, un
grido collettivo:
no agli aumenti del carburante, Macron dimettiti! Non a caso, nella
protesta popolare di pancia subito
si inserisce la destra estrema,
che nelle rivolte umorali ci sguazza, così
come
trae vantaggi enormi dalla politica
fatta con i tweet,
in cui semplici slogan e parole d’ordine prendono il posto di
analisi, visioni complessive, progetti di lungo periodo.
Dato
un
mondo sempre più complesso
e dipendente da ogni forma di tecnologia, in una popolazione di
tecnologia sostanzialmente e
programmaticamente analfabeta
(che ne conosce solo la superficie brillante e ormai facilissima da
“usare”, anche per gli analfabeti!) si insinuano la pretesa,
l’illusione, l’ostinazione di voler dare risposte
sempre più semplici.
E allora
la
realtà facilmente va in corto circuito, con le conseguenze
politiche, sociali, ambientali nefaste che conosciamo, comunità
e nazioni disconnesse
che si ubriacano dell’immagine della connessione, e drappelli di
guru digitali che descrivono le meraviglie che con la tecnologia si
potrebbero fare, senza accorgersi che quasi nessuno in effetti le fa!
La
prima
domanda
è:
dato
il fatto comunque indiscutibile che quando le persone si mettono
davvero in rete ne può scaturire una forza immane, il carattere
episodico e “di
destra”
dei movimenti che ne
nascono
è una dato strutturale
e intrinseco alla rete
digitale
stessa, oppure dipende anche dal fatto che questa forza
immensa è maneggiata da analfabeti,
cresciuti individualisti e passivi con il mercato e la televisione, e
che quindi possono usare la rete al massimo per tentativi?
L’altra
domanda è: sarebbe possibile, aumentando il livello di
consapevolezza civica e tecnica della popolazione, avere dei
movimenti in rete “rallentati”, che non scoppino solo
su
fatti contingenti, ma funzionino
in maniera continuativa
su
problemi più strutturali e riescano a produrre una vera
elaborazione
collettiva.
E questa elaborazione, potrebbe avere una forza paragonabile a quella
messa in campo in questi giorni dai gilè gialli?
L’immagine
di una forza orizzontale permanente in rete fa
paura, perché davvero potrebbe
cambiare tutto: la
rete è potere!
E
gli umani, a cui
tutto
sommato non piace molto
cambiare, dopo aver digerito a mala pena nei decenni passati la
sbornia da automobile e televisione e essere ancora in piena sbornia
da telefonini, istintivamente sembrano rifiutare
soprattutto l’altra
faccia
del potere, cioè la responsabilità.
Che
responsabilità sia sinonimo di seccature credo però
sia
uno stereotipo abilmente suggerito dal pensiero unico mercantile, che
ci vorrebbe tutti consumatori passivi e impotenti. In realtà,
privati di responsabilità, perdiamo
il
controllo delle nostre vite,
da
cui sempre più
inquietudini,
nevrosi, violenza.
E non
a caso proprio
i
bambini e i ragazzi,
che ancora non si sono rassegnati a venire espropriati del gusto
della vita, quando
vengono
caricati di qualche responsabilità, cioè si
sentono degni
di fiducia e di ascolto,
di solito reagiscono
con attenzione, partecipazione, entusiasmo!