L’umanità dell’informazione al bivio tra conformismo acritico e intolleranza o consapevolezza e responsabilità
...parte prima; ... parte seconda
4.
Alienazione
2.0
Il
linguaggio e le parole sono il modo principale con cui gli umani
pensano la loro vita. È una cosa talmente automatica e quotidiana
che non
ce ne rendiamo conto, ma banalmente
capire
quello che diciamo, riferirlo alla nostra esperienza, usare termini
che trovano corrispondenze nel pensiero e quel pensiero svolgerlo in
modo armonico e sereno, è importante. Dovere
di continuo adeguarsi
a qualcosa che arriva
comunque dal
di fuori,
perché
è di moda, perché le convenzioni sociali, perché la tecnologia,
perché il nostro ruolo, perché così va il mondo, alla lunga
deprimono, producono insicurezza e perdita dell’autostima,
appiattiscono e intristiscono la vita.
Mi
capitò anni fa con una collega che lavora in campo ambientale e con
i bambini, una brava, intelligente e istruita, una di quelle persone
che non si trascinano nel mondo aspettano di sapere dagli altri che
cosa devono fare. Stavo parlando e, nel mezzo di un ragionamento,
usai una termine
già allora comune e
dissi “Due punto zero!”
Ricordo
la sua espressione assolutamente basita. Credo che mi fermai, spiegai
con altre parole che cosa intendevo dire. Poi
però,
siccome
ritengo
che per
vivere in mezzo agli altri serva
anche tenere conto
delle interazioni con la gente,
provai
a pensarci, a
farmi qualche domanda. Cioè: avevo
incontrato una sacca inaspettata di umana insipienza (per cui chi non
sa casca dal fico, ma sono lacune sue), oppure ero io che forse
avevo
usato una espressione che,
per
quanto in voga, linguisticamente non andava bene?
Le
persone normali contano “1,2,3,4”, a voce, con le dita. E
ci
si capisce, fin da bambini, ci
viene
naturale e questo tipo di numerazione si può applicare a qualsiasi
cosa. Ma ecco a un certo punto che quelli al passo con i tempi (o
che più banalmente se la tirano),
quando
parlano di “tecnologia”
incominciano a contare “1.0, 2.0, 3.0”. E
la terminologia entra nel linguaggio corrente, si
diffonde.
A
parte però
che in italiano per indicare i decimali bisognerebbe usare la
virgola, dai
tempi
della
scuola dell’obbligo tutti sanno che “virgola 0” è una
espressione assolutamente priva di senso:
la virgola si mette solo quando dopo c’è un numero, un decimale,
non il nulla!.
Domanda
allora: perché lo diciamo?
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Scuola primaria Arici, Brescia 2002 disegno a mano di Matteo, IIIa, dopo i disegni al computer |
Chiedo
perdono se azzardo un’ipotesi. La maggior parte usano l’espressione
per non sentirsi tagliati fuori. Tutti lo dicono e anche io lo dico,
anche se non so assolutamente che cosa significhi. In
un mondo in cui Narciso detta legge, parlare come quelli che sanno
di “tecnologia” (uso le virgolette, perché è alquanto strana
l’idea che da alcuni anni abbiamo
della tecnologia) diventa
un imperativo sociale. Anche se usiamo i nostri aggeggi digitali al 5% delle
loro possibilità, anche se luoghi comuni sostanzialmente privi di
senso come quello dei “nativi digitali” rischiano di far crescere
le nuove generazioni in un equivoco devastante, fornendo un facile
alibi alle generazioni adulte per giustificare i propri fallimenti
educativi.
Intorno,
mentre
i ritmi
e
la quantità di informazioni
si fanno sempre più incalzanti e invadenti,
forse
per recuperare altrove una sicurezza che l’ignoranza generale dei
mezzi certo non consente, i
sistemi di istruzione, le aspettative e i riconoscimenti sociali
spesso,
invece
di rendersi più fluidi ed elastici, si arroccano su anacronistici
sistema di valutazioni, omologazioni, certificazioni che negano
di fatto la natura stessa del cambiamento. Così
i
cittadini
della società dell’informazione non solo
non hanno
gli
strumenti concettuali per comprendere e gestire la ridondanza, ma
nessuno
si preoccupa di darglieli, anche
perché
il sostanziale
analfabetismo di base alimenta l’economia e il mercato, con tutti a
dotarsi affannosamente di ogni sorta di strumento tecnologico che
possibilmente faccia, pensi per noi, e
aziende planetarie che costruiscono imperi miliardari mai visti
praticamente sul nulla, millantando di liberare noi poveri
consumatori dalle responsabilità.
Il
modello “positivo” è quello ben pronosticato nei cartoni animati
dei Pronipoti,
degli anni 60 del secolo scorso, un “futuro” reso facile e
automatico da macchine che ci sostituiscono in tutto. La faccia
negativa è la ribellione delle macchine, l’umanità schiacciata da
un progresso tecnologico che è impossibile controllare o che, nelle
mani di un pugno sempre
più ristretto
di individui, si trasforma nel Grande Fratello, o provoca quelle
catastrofi di mostri e lotta selvaggia di tutti contro tutti che
dalla letteratura e dal cinema direttamente entrano nell’immaginario
della gente, dipingendo scenari sempre più apocalittici di angoscia
e paura, che si riflettono sul mondo reale e lo rendono
molto più difficile da vivere.
L’orizzonte
culturale di restringe, si
rifiuta
il ragionamento, la riflessione. Ma
si approfitta della rete telematica mondiale - nella sua versione
addomesticata, regolamentata entro
schemi
preconfezionati
e rigidi
stabiliti
dai padroni privati dei social network, che ci
esimono
apparentemente da ogni responsabilità – per esporre
le proprie idee comunque, affermare
una
identità, contemplare
la propria
presenza “digitale” sugli schermi. Ci
colleghiamo
con
quelli che la pensano come noi, troviamo
il nostro schieramento, ci
mostriamo
all’esterno spesso
attraverso pochi tratti distintivi schematici, titoli, slogan
riassuntivi che, negando in partenza la complessità, allontano
progressivamente sempre più la possibilità di affrontarla. Perché
intanto diamo per scontato che, per quanto facciamo sentire la nostra
voce in rete, le decisioni vere sulla vita reale di noi e di tutti le prenderà
comunque qualcun altro.
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Scuola primaria Arici, Brescia 2002, classe IIb disegno al computer: Bosco! |
Se
l’umanità degli anni 1990 appariva piuttosto
frastornata dallo sviluppo tecnologico incalzante e culturalmente
impegnativo - i personal computer, il World Wide Web - e comunque
fiduciosa che se non fossimo stati
capaci noi
di
fare il salto culturale necessario,
ci avrebbero pensato i nostri figli, quella del 2000 è stata
“tranquillizzata” da una tecnologia che
si è abbassata al livello
di chiunque – i telefonini, i social network – e
a
quel salto culturale sembra
avere
ormai rinunciato. Non ha imparato niente di nuovo e nemmeno pensa più
davvero che serva imparare - non lo fanno più neanche i nostri
figli, la
curiosità, la ricerca, il gioco ridotti a una scelta tra gli
scaffali di software sempre più predigerito -
perché c’è chi apparecchia ogni cosa per noi, c’è una app per
tutto,
e
in fondo
naufragar ci è dolce in questo mare. Come
una ubriacatura, una droga sotto il cui effetto tutto sembra
apparentemente funzionare, per possibilmente allontanare un mondo
reale di cui – perdonate
il ritornello, ma qui sta il punto - ci
rifiutiamo di condividere la responsabilità.
5. La società dell’informazione interrotta e il trionfo
dell’inutilità
Non
è da ieri che si studia e si descrive come funziona l’informazione,
e alcuni punti fermi sono ancora validi e possono essere ben
compresi anche dai bambini.
C’è
un emittente, che produce il messaggio, e un destinatario,
a cui il messaggio arriva; c’è un canale attraverso cui
viene trasmesso e un codice,
lingua, alfabeto, numeri, immagini o altro, che il
destinatario deve conoscere, ne no gli è impossibile capire. Poi
importante è il rumore che - come il traffico durante una
conversazione, le interferenze durante una trasmissione radio - può
disturbare in vario modo vario la comprensione del messaggio, fino a renderlo inintelligibile del tutto.
Questo
schema, mutatis mutandis, vale per la trasmissione di dati come per
le comunicazioni tra gli umani. Ma ci sono altri fattori che vanno
considerati, caratteristici del tempo presente, e non derivano a mio
parere tanto dalle novità tecnologiche, quanto dall’atteggiamento
degli umani.
Uno:
i tempi di attenzione. Li si descrive spesso oggi come “fatalmente”
sempre più ridotti, come se fosse una evoluzione antropologica e non
una abitudine mentale. Si parla di bambini che più di otto o dieci
minuti non sono in grado di seguire la lezione della maestra,
così come qualsiasi altra cosa. Ma davvero?
Come
si fa per esempio a procedere attraverso i livelli di un videogioco,
se non si presta attenzione? Ed è una attenzione che molti ragazzini
riescono evidentemente a tenere viva per molte ore di seguito! E come mai se quello che
dico o che faccio è interessante, succede invece che come per magia i bambini mi seguono?
Senza
sottovalutare la desuetudine a stare attenti, che effettivamente riguarda un numero crescente di individui e può
creare problemi, forse dovremmo inquadrare la questione in un contesto
in cui l’overdose da informazione sollecita banalmente
reazioni di difesa da parte degli umani, per cui l’attenzione
scatta solo in presenza di una motivazione sufficientemente forte. E
nell’emettere il nostro messaggio, sarebbe bene tenerne conto.
Due:
la sostanziale autoreferenzialità di molti messaggi, quello che
potremmo chiamare anche “effetto specchio”. Cioè, siamo talmente
presi dalla intenzione alla base della nostra comunicazione,
che non andiamo poi a verificare quale messaggio arriva in effetti al
destinatario.
Ho
già commentato nella prima parte di questo articolo (capitolo 2) – e mi sembra un ottimo
esempio - la per me bizzarra e contraddittoria strategia linguistica “inclusiva” a base di
asterischi che alcuni praticano nelle loro comunicazioni scritte. Di
fatto, a parte quelli che la condividono, non credo che servano
indagini scientifiche approfondite per dire che i destinatari di
questi messaggi dal genere indefinito e dalle vocali mancanti molto
spesso ne sono irritati, o semplicemente ridono.
Domanda:
come può essere inclusiva una comunicazione che nei più
suscita fastidio o ilarità?
Di seguito, due
esempi di paradossi che mi sembra rendano l’idea di come il flusso continuo
di informazione in cui viviamo immersi sia spesso interrotto e
inutile.
Se
ci chiamano a parlare in televisione, chiunque di noi, ci
spiegheranno che dobbiamo sbrigarcela in pochi minuti, perché se no
dopo ci tagliano: i famosi implacabili, inappellabili tempi
televisivi!
Ma
se guardiamo trasmissioni di grande popolarità come “Uomini e donne”, vediamo che lì al
pettegolezzo, al cazzeggio, al bullismo, alla litigiosità in TV non
si pone alcuni limite: quelli possono parlare per ore di niente, e
vanno bene, fanno audience!
Ci
sono blog culturali, perfino social network di nicchia culturalmente impegnati,
in cui ogni discussione sui destini del mondo, anche lanciata da
menti eccelse, quale che sia l’argomento sembra destinata ad
arenarsi entro pochi interventi e commenti. E il pensiero non
procede, i nuovi media non diventano quel moltiplicatore di idee e iniziative che ottimisti pionieri avevano forse incautamente
profetizzato.
Se
invece in Instagram, Facebook, Twitter o Tik Tok si “postano” a
volte assolute scemenze, o foto o immagini semplicemente curiose o
intriganti, ecco che può capitare che intorno si scateni un delirio di “mi
piace”, faccine, cuoricini, commenti di ogni sorta, fino a far
diventare quelle scemenze “virali”.
Più
che di mutazioni antropologiche o della natura dei mezzi, credo si
tratti più banalmente della manifestazione di un generale disagio e
senso di impotenza che si avvitano su se stessi., assuefatti come
siamo a non esprimerci in contesti “costruttivi”, ma solo a
fornire testimonianze e attestati di presenza entro cornici protette.
Solo
che vivere immersi in un flusso di informazioni che riguardo alle
cose importanti ci lascia abitualmente inespressi e insoddisfatti,
alla lunga non fa affatto bene.
Continua