Sono tempi brutti, e il timore è che l'egoismo, il narcisismo imperanti possano portare a un peggio che non conosciamo, non solo nelle relazioni personali, nell'economia del nostro travagliato paese ma, come in un pessimo film di fantascienza, in tutto quanto il pianeta, esposto come non mai alla catastrofe ambientale, alimentare, sanitaria, e alla guerra.
Da tempo non frequento questi miei blog personali. Scrivo regolarmente su una rivista in rete, ho scritto e ancora scriverò e pubblicherò con editori o da solo, poi dopo il primo lockdown mi sono messo a scrivere, suonare, cantare (anche se suono male e canto peggio) canzoni e a farne videoclip.
Questa attività mi dà qualche piccola soddisfazione, verificando come si può ancora studiare, , imparare, migliorare un po' anche alla mia età.
Con i bambini l'ultima esperienza è stata bellissima. Ha fatto un laboratorio di animazione teatrale con un gruppo numeroso che mi arrivava alle 4 del pomeriggio, dopo 8 ore di scuola! E ho verificato una volta di più (come in centinaia di attività nei decenni trascorsi) che non è nella scuola dei test e delle verifiche che è possibile capire che cosa i bambini imparano, perché ogni vero apprendimento o espressione, o produzione di cultura, va sempre oltre quello che può insegnare un maestro. Cioè: l'educazione non funziona quando l'allievo ripete quello che ha imparato dal maestro, ma quando da quello che il maestro ha insegnato viene stimolato poi a fare altro, qualcosa di più, di suo. Elementare, Watson!
Ma di solito questi "apprendimenti" veri nessuno li considera e, nello scenario di oggi, questo ha effetti molto più gravi e devastanti che in passato. Perché nel nostro tempo alle categorie culturali e ai riferimenti sociali tradizionali si è sostituita una confusa e incontrollabile sovrabbondanza di informazioni, stimoli, possibilità potenzialmente enormi ma per i più impraticabili di essere protagonisti e di produrre, con una diffusione orizzontale capillare dei mezzi nelle mani di tutti, resa però quasi totalmente inutile da una cultura assuefatta al puro consumo, alla passività, alla rinuncia sistematica a ogni tipo di responsabilità e di iniziativa vera sulla realtà. Il risultato un centralismo sempre più spinto, una ipertrofia burocratica, uno spreco sistematico di risorse e potenzialità, con gli umani che invece di mettersi insieme per utilizzare la potenza della tecnologia diffusa, si fossilizzano in comportamenti disperanti: chiacchiere a non finire su ogni cosa, pur di non partecipare personalmente; incapacità assoluta di ascolto e rissosità dilagante, per cui su ogni cosa, importante o frivola che sia, non ci si parla e non si costruisce ma ci si schiera; costrizione delle possibilità di democrazia infinita e quasi assoluta della Rete dentro le gabbie strette e rigide dei social network, in cui ogni analfabeta può entrare e credere di dire la sua, ma in cui in realtà ogni cosa ridotta al servizio del profitto di pochi padroni del vapore, secondo meccanismi di mercato obsoleti in cui le nuove tecnologie, a parole esaltate come se ci stessero portando a chissà quale evoluzione epocale, in realtà vengono distrutte e annichilite.
I bambini, che prima di essere addestrati a comportarsi sulla base di schemi e stereotipi, nei primi anni di vita almeno cercano di vivere, queste cose le sentono, le soffrono in modo particolare, e soprattutto soffrono il fatto di vedere sistematicamente ignorato quello che sentono, che imparano, che sanno e che sono, come persone. È dalla falsità dell'ambiente in cui li costringiamo a crescere, che derivano tanti problemi "insolubili", e non a caso durante attività come quelle di animazione, in cui semplicemente li si incoraggia a tirare fuori ed esprimere quello che hanno dentro, problemi come il deficit di attenzione e il bullismo quasi non si registrano.
Cito anche qui le parole testuali di due bambine di 9 e 10 anni:
"Il maestro ci ha lasciato la possibilità di ragionare, di inventare, e questo mi è piaciuto".
“Io penso che è molto divertente condividere con gli altri la mia fantasia, senza che nessuno mi critichi per le cose che mi piace fare!”
Più o meno è successo lo stesso anche a me in quanto allievo, quando ho chiesto aiuto al mio amico Piero musicista per le mie canzoni da pubblicare on line. Dopo dritte, insegnamenti, raccomandazioni, difficoltà e incomprensioni, momenti di frustrazione sul come suonare, cantare, fare le musiche, metterci quello strumento oppure no, mixare come voleva lui o come preferivo io, a un certo punto mi sono accorto che riuscivo a fare meglio anche da solo, che certi errori grossolani li stavo superando, non perché mi adeguavo a quello che mi diceva - sarebbe per esempio impossibile, per me dilettante che va per tentativi, trovare nelle scale musicali quello che mi dice lui, che certe cose le respira da una vita! - ma perché stavo probabilmente interiorizzando il senso di critiche e osservazioni che pure in certi casi lì per lì mi avevano messo a disagio.
Qualcosa di simile era successo anche a suo tempo con la mia editor con le edizioni Sonda. Mi proponeva correzioni ai miei testi che in certi casi, se avessi risposto d'impeto, probabilmente sarebbero stati litigi furibondi. E invece, dal confronto di punti di vista a volta anche molto diversi, riuscivamo poi a incontrarci più avanti, a trovare una sintesi che ci metteva d'accordo, con risultati finali di un livello che mai sarebbe stato raggiunto se io fossi rimasto sulle mie idee e lei sulle sue. E credo che abbiamo fatto dei buoni libri, anche se a 12 anni dall'ultimo non sono più in catalogo.
La prossima canzone si chiamerà "Gente che rinuncia". Ho scritto la prima strofa un giorno che cercavo di farmi passare un attacco di depressione, in netta difficoltà nelle relazioni personali, negli affetti e sul lavoro. E scrivere in quel caso mi ha fatto subito bene. Come mi fa bene uscire nella natura, fare un giro in bicicletta, leggere un bel libro o guardare un bel film, ritrovarmi con persone che conosco o anche no a condividere per qualche momento pensieri ed emozioni.
Ho finito testo è musica, forse ho capito come cantarla e suonarla e, come anche questo articolo che sto scrivendo ora, mi serve a capire, ritrovarmi con me stesso, andare avanti non arrancando, arroccato a difesa delle mie debolezze, ma inventando magari qualcosa di nuovo, che mi piace.
Vedo intorno persone anche care, che si lasciano scomparire all'orizzonte senza che chi vuole loro bene possa fare niente per essere con loro. Paradossalmente, lo stare male e le insicurezze diventano una identità a cui aggrapparsi, mentre il flusso di doveri, lavoro, famiglia, impegni necessari o anche no - purché siano impegni, cose che non si può non fare! - porta via e trascina in un vortice che dà un ritmo preciso e non lascia il tempo di fermarsi per pensare, scegliere, desiderare, esistere magari anche per noi. E progressivamente separa, per sé e per gli altri, la volontà dalla responsabilità. Poi gli chiedi come stanno e ti dicono "Non tanto bene!" Perché ovviamente ne risentono la qualità della vita, l'umore, la salute.
Un'altra cosa mi hanno detto i bambini che è piaciuta molto durante le attività di animazione, banale, ma importantissima, essenziale: è stato bello fare le cose insieme!
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