venerdì 21 gennaio 2022

Gestire la complessità, parte terza



L’umanità dell’informazione al bivio tra conformismo acritico e intolleranza o consapevolezza e responsabilità
 

...parte prima; ... parte seconda

4. Alienazione 2.0

Il linguaggio e le parole sono il modo principale con cui gli umani pensano la loro vita. È una cosa talmente automatica e quotidiana che non ce ne rendiamo conto, ma banalmente capire quello che diciamo, riferirlo alla nostra esperienza, usare termini che trovano corrispondenze nel pensiero e quel pensiero svolgerlo in modo armonico e sereno, è importante. Dovere di continuo adeguarsi a qualcosa che arriva comunque dal di fuori, perché è di moda, perché le convenzioni sociali, perché la tecnologia, perché il nostro ruolo, perché così va il mondo, alla lunga deprimono, producono insicurezza e perdita dell’autostima, appiattiscono e intristiscono la vita.

Mi capitò anni fa con una collega che lavora in campo ambientale e con i bambini, una brava, intelligente e istruita, una di quelle persone che non si trascinano nel mondo aspettano di sapere dagli altri che cosa devono fare. Stavo parlando e, nel mezzo di un ragionamento, usai una termine già allora comune e dissi “Due punto zero!”

Ricordo la sua espressione assolutamente basita. Credo che mi fermai, spiegai con altre parole che cosa intendevo dire. Poi però, siccome ritengo che per vivere in mezzo agli altri serva anche tenere conto delle interazioni con la gente, provai a pensarci, a farmi qualche domanda. Cioè: avevo incontrato una sacca inaspettata di umana insipienza (per cui chi non sa casca dal fico, ma sono lacune sue), oppure ero io che forse avevo usato una espressione che, per quanto in voga, linguisticamente non andava bene?

Le persone normali contano “1,2,3,4”, a voce, con le dita. E ci si capisce, fin da bambini, ci viene naturale e questo tipo di numerazione si può applicare a qualsiasi cosa. Ma ecco a un certo punto che quelli al passo con i tempi (o che più banalmente se la tirano), quando parlano di “tecnologia” incominciano a contare “1.0, 2.0, 3.0”. E la terminologia entra nel linguaggio corrente, si diffonde. A parte però che in italiano per indicare i decimali bisognerebbe usare la virgola, dai tempi della scuola dell’obbligo tutti sanno che “virgola 0” è una espressione assolutamente priva di senso: la virgola si mette solo quando dopo c’è un numero, un decimale, non il nulla!. Domanda allora: perché lo diciamo?


Scuola primaria Arici, Brescia 2002
disegno a mano di Matteo, IIIa, dopo i disegni al computer 

Chiedo perdono se azzardo un’ipotesi. La maggior parte usano l’espressione per non sentirsi tagliati fuori. Tutti lo dicono e anche io lo dico, anche se non so assolutamente che cosa significhi. In un mondo in cui Narciso detta legge, parlare come quelli che sanno di “tecnologia” (uso le virgolette, perché è alquanto strana l’idea che da alcuni anni abbiamo della tecnologia) diventa un imperativo sociale. Anche se usiamo i nostri aggeggi digitali al 5% delle loro possibilità, anche se luoghi comuni sostanzialmente privi di senso come quello dei “nativi digitali” rischiano di far crescere le nuove generazioni in un equivoco devastante, fornendo un facile alibi alle generazioni adulte per giustificare i propri fallimenti educativi.

Intorno, mentre i ritmi e la quantità di informazioni si fanno sempre più incalzanti e invadenti, forse per recuperare altrove una sicurezza che l’ignoranza generale dei mezzi certo non consente, i sistemi di istruzione, le aspettative e i riconoscimenti sociali spesso, invece di rendersi più fluidi ed elastici, si arroccano su anacronistici sistema di valutazioni, omologazioni, certificazioni che negano di fatto la natura stessa del cambiamento. Così i cittadini della società dell’informazione non solo non hanno gli strumenti concettuali per comprendere e gestire la ridondanza, ma nessuno si preoccupa di darglieli, anche perché il sostanziale analfabetismo di base alimenta l’economia e il mercato, con tutti a dotarsi affannosamente di ogni sorta di strumento tecnologico che possibilmente faccia, pensi per noi, e aziende planetarie che costruiscono imperi miliardari mai visti praticamente sul nulla, millantando di liberare noi poveri consumatori dalle responsabilità.

Il modello “positivo” è quello ben pronosticato nei cartoni animati dei Pronipoti, degli anni 60 del secolo scorso, un “futuro” reso facile e automatico da macchine che ci sostituiscono in tutto. La faccia negativa è la ribellione delle macchine, l’umanità schiacciata da un progresso tecnologico che è impossibile controllare o che, nelle mani di un pugno sempre più ristretto di individui, si trasforma nel Grande Fratello, o provoca quelle catastrofi di mostri e lotta selvaggia di tutti contro tutti che dalla letteratura e dal cinema direttamente entrano nell’immaginario della gente, dipingendo scenari sempre più apocalittici di angoscia e paura, che si riflettono sul mondo reale e lo rendono molto più difficile da vivere.

L’orizzonte culturale di restringe, si rifiuta il ragionamento, la riflessione. Ma si approfitta della rete telematica mondiale - nella sua versione addomesticata, regolamentata entro schemi preconfezionati e rigidi stabiliti dai padroni privati dei social network, che ci esimono apparentemente da ogni responsabilità – per esporre le proprie idee comunque, affermare una identità, contemplare la propria presenza “digitale” sugli schermi. Ci colleghiamo con quelli che la pensano come noi, troviamo il nostro schieramento, ci mostriamo all’esterno spesso attraverso pochi tratti distintivi schematici, titoli, slogan riassuntivi che, negando in partenza la complessità, allontano progressivamente sempre più la possibilità di affrontarla. Perché intanto diamo per scontato che, per quanto facciamo sentire la nostra voce in rete, le decisioni vere sulla vita reale di noi e di tutti le prenderà comunque qualcun altro.

Scuola primaria Arici, Brescia 2002, classe IIb
disegno al computer: Bosco!

Se l’umanità degli anni 1990 appariva
piuttosto frastornata dallo sviluppo tecnologico incalzante e culturalmente impegnativo - i personal computer, il World Wide Web - e comunque fiduciosa che se non fossimo stati capaci noi di fare il salto culturale necessario, ci avrebbero pensato i nostri figli, quella del 2000 è stata “tranquillizzata” da una tecnologia che si è abbassata al livello di chiunque – i telefonini, i social network – e a quel salto culturale sembra avere ormai rinunciato. Non ha imparato niente di nuovo e nemmeno pensa più davvero che serva imparare - non lo fanno più neanche i nostri figli, la curiosità, la ricerca, il gioco ridotti a una scelta tra gli scaffali di software sempre più predigerito - perché c’è chi apparecchia ogni cosa per noi, c’è una app per tutto, e in fondo naufragar ci è dolce in questo mare. Come una ubriacatura, una droga sotto il cui effetto tutto sembra apparentemente funzionare, per possibilmente allontanare un mondo reale di cui – perdonate il ritornello, ma qui sta il punto - ci rifiutiamo di condividere la responsabilità.


5. La società dell’informazione interrotta e il trionfo dell’inutilità

Non è da ieri che si studia e si descrive come funziona l’informazione, e alcuni punti fermi sono ancora validi e possono essere ben compresi anche dai bambini.

C’è un emittente, che produce il messaggio, e un destinatario, a cui il messaggio arriva; c’è un canale attraverso cui viene trasmesso e un codice, lingua, alfabeto, numeri, immagini o altro, che il destinatario deve conoscere, ne no gli è impossibile capire. Poi importante è il rumore che - come il traffico durante una conversazione, le interferenze durante una trasmissione radio - può disturbare in vario modo vario la comprensione del messaggio, fino a renderlo inintelligibile del tutto.

Questo schema, mutatis mutandis, vale per la trasmissione di dati come per le comunicazioni tra gli umani. Ma ci sono altri fattori che vanno considerati, caratteristici del tempo presente, e non derivano a mio parere tanto dalle novità tecnologiche, quanto dall’atteggiamento degli umani.

Uno: i tempi di attenzione. Li si descrive spesso oggi come “fatalmente” sempre più ridotti, come se fosse una evoluzione antropologica e non una abitudine mentale. Si parla di bambini che più di otto o dieci minuti non sono in grado di seguire la lezione della maestra, così come qualsiasi altra cosa. Ma davvero?

Come si fa per esempio a procedere attraverso i livelli di un videogioco, se non si presta attenzione? Ed è una attenzione che molti ragazzini riescono evidentemente a tenere viva per molte ore di seguito! E come mai se quello che dico o che faccio è interessante, succede invece che come per magia i bambini mi seguono?

Senza sottovalutare la desuetudine a stare attenti, che effettivamente riguarda un numero crescente di individui e può creare problemi, forse dovremmo inquadrare la questione in un contesto in cui l’overdose da informazione sollecita banalmente reazioni di difesa da parte degli umani, per cui l’attenzione scatta solo in presenza di una motivazione sufficientemente forte. E nell’emettere il nostro messaggio, sarebbe bene tenerne conto.

Due: la sostanziale autoreferenzialità di molti messaggi, quello che potremmo chiamare anche “effetto specchio”. Cioè, siamo talmente presi dalla intenzione alla base della nostra comunicazione, che non andiamo poi a verificare quale messaggio arriva in effetti al destinatario.

Ho già commentato nella prima parte di questo articolo (capitolo 2) – e mi sembra un ottimo esempio - la per me bizzarra e contraddittoria strategia linguistica “inclusiva” a base di asterischi che alcuni praticano nelle loro comunicazioni scritte. Di fatto, a parte quelli che la condividono, non credo che servano indagini scientifiche approfondite per dire che i destinatari di questi messaggi dal genere indefinito e dalle vocali mancanti molto spesso ne sono irritati, o semplicemente ridono.

Domanda: come può essere inclusiva una comunicazione che nei più suscita fastidio o ilarità?

Di seguito, due esempi di paradossi che mi sembra rendano l’idea di come il flusso continuo di informazione in cui viviamo immersi sia spesso interrotto e inutile.

Se ci chiamano a parlare in televisione, chiunque di noi, ci spiegheranno che  dobbiamo sbrigarcela in pochi minuti, perché se no dopo ci tagliano: i famosi implacabili, inappellabili tempi televisivi!

Ma se guardiamo trasmissioni di grande popolarità come “Uomini e donne”, vediamo che lì al pettegolezzo, al cazzeggio, al bullismo, alla litigiosità in TV non si pone alcuni limite: quelli possono parlare per ore di niente, e vanno bene, fanno audience!

Ci sono blog culturali, perfino social network di nicchia culturalmente impegnati, in cui ogni discussione sui destini del mondo, anche lanciata da menti eccelse, quale che sia l’argomento sembra destinata ad arenarsi entro pochi interventi e commenti. E il pensiero non procede, i nuovi media non diventano quel moltiplicatore di idee e iniziative che ottimisti pionieri avevano forse incautamente profetizzato.

Se invece in Instagram, Facebook, Twitter o Tik Tok si “postano” a volte assolute scemenze, o foto o immagini semplicemente curiose o intriganti, ecco che può capitare che intorno si scateni un delirio di “mi piace”, faccine, cuoricini, commenti di ogni sorta, fino a far diventare quelle scemenze “virali”.

Più che di mutazioni antropologiche o della natura dei mezzi, credo si tratti più banalmente della manifestazione di un generale disagio e senso di impotenza che si avvitano su se stessi., assuefatti come siamo a non esprimerci in contesti “costruttivi”, ma solo a fornire testimonianze e attestati di presenza entro cornici protette.

Solo che vivere immersi in un flusso di informazioni che riguardo alle cose importanti ci lascia abitualmente inespressi e insoddisfatti, alla lunga non fa affatto bene.

Continua

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