Questo avevo scritto un giorno, mentre finalmente leggevo per intero
Le Città Invisibili di Italo Calvino, avendo appena pubblicato I Pianeti Raccontati, un piccolo libro che a quell’altro libro
illustre si
ispira e che è uscito giusto un anno fa...
Parlò allora Kublai Khan, fissandolo
negli occhi con un sorriso che, se non fosse stato per il celeste
lignaggio dell'imperatore, Paolo avrebbe probabilmente interpretato
come vagamente complice. Disse il signore dei Mongoli e dei Cinesi:
«Il tuo lavoro non ha la struttura
complessa su piani molteplici e intercomunicanti dell'Opera di
Calvino, e in effetti è solo un libro per bambini. Ma in molti
passaggi c'è una sorprendente assonanza di toni e di atmosfere, come
se avessi assimilato nel profondo se non lo stile, inarrivabile,
almeno l'intenzione. E come è possibile, se è vero quello che dici,
che tu non avevi in realtà mai letto, se non per piccoli estratti,
Le Città Invisibili».
Paolo
sorrideva, con un certo luccichio in fondo
agli occhi, ripassando ad alta velocità
una folla di pensieri già pensati. E così rispose:
«Non è importante forse avere letto
pagine e capitoli e libri interi di parole già disposte nella loro
forma pubblica e definitiva, quando comprendere l'idea, la radice,
l'origine da cui quelle stesse parole sono uscite a formare un
racconto e lì andare per ricominciare a scrivere un altro racconto,
che alla fine in molti punti sarà però lo stesso racconto, perché
indirizzato dalla stessa idea. Toni e atmosfere convergono allora da
certi sensi unici della narrazione e della fantasia, non importa se
lo scrittore è genio o dilettante, a raggrupparsi intorno nel gioco
di suggerire, evocare, proporre immagini e lasciare dubbi. Questo
affascina il lettore che conosce il piacere di immaginare e sa
sorridere leggero di se stesso.
Città e Pianeti sono in fondo un gioco
della mente e del desiderio, un lancio di dadi che non è pericoloso
e non induce dipendenza, nella ricerca, appassionata e tranquilla
allo stesso tempo, di un’origine, di un'idea.
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