Piccola premessa, a chiarire un po’ di
equivoci che girano.
Intanto, digitale
significa “numerico”. Deriva dall’inglese digit (cifra, numero),
che a sua volta deriva dal latino digitus (dito, cioè il primo “attrezzo”
usato dall’uomo per contare). Nella lingua italiana, usiamo la parola
“digitale” anche derivandola direttamente dal latino, quando parliamo per es. di
“impronte digitali” (delle dita).
In questi anni, dato che gli aggeggi
tecnologici di cui ci riempiamo la vita hanno un cuore digitale
(numerico), c’è chi ha ipotizzato che le
generazioni umane recenti stiano sviluppando una sorta di “pensiero digitale”,
contrapposto al tradizionale pensiero analogico degli umani.
In realtà, osservando la facilità con cui non
solo generalmente i bambini – che con i dispositivi digitali ci nascono - ma
anche moltissimi adulti e perfino anziani che vi si accostano per la prima volta, si destreggiano con gli aggeggi più
recenti, non è difficile capire come certi dispositivi digitali dentro
(computer, telefonini e via dicendo) siano diventati popolari e accessibili a
tutti nel momento in cui sempre più hanno assunto una interfaccia utente
analogica (il mouse che sullo schermo simula la scrivania, le dita
che direttamente toccano “disegnini” sullo schermo, o stringono e allargano un’immagine).
Vale a dire, l’eventuale migrazione degli
umani verso un “pensiero digitale”, che qualcuno ipotizzava nei primi anni
Ottanta del secolo scorso, quando i computer si programmavano da tastiera con
comandi e istruzioni pedanti ed estremamente precisi e si pensava che il
“futuro” fosse il linguaggio BASIC, è stata poi aggirata costruendo macchine digitali in
realtà sempre più vicine, nel funzionamento, all’approccio analogico
degli utenti umani.
Questo, se da una parte (ed è un vantaggio)
consente a chiunque di utilizzare con profitto gli strumenti tecnologici di
oggi anche senza avere una vera competenza tecnologica, dall’altra (e può
essere un problema), non sollecita quel confronto “in sintonia” con le macchine
che, al tempo dei computer da programmare, aveva fatto scoprire a molti
ragazzini di avere una mente adatta a misurarsi con il funzionamento profondo
delle macchine stesse o, più umilmente, faceva almeno intuire a tutti il lavoro
umano e il tipo di “pensiero” che sta dietro ad applicazioni facili e potenti
e a videogiochi mirabolanti.
In altre parole – questa ovviamente è una mia opinione, ma si basa su un’esperienza di decenni sul campo, cioè nelle scuole con
i ragazzi veri, molto vasta - non solo
diventa più difficile, dato l’uso generalizzato di applicazioni già pronte e
sempre più specifiche, che non comportano alcuna ricerca di tipo informatico,
che nascano ed emergano naturalmente dal gruppo nuovi Paul Allen, Steve Wozniak, Richard Stallman, Linus Torvalds, ma rischiamo seriamente di perdere alcuni
elementi basilari di alfabetizzazione, rispetto a linguaggi che si sono
sviluppati molto in fretta, e di cui non sono stati ancora individuati con
precisione gli elementi di base e le “grammatiche” che sarebbe utile fossero
conosciuti da tutti.
La frenesia da digitalizzazione oggi è di
moda, ma spesso si traduce solo in nuova inutile burocrazia digitale, con una pericolosa sottovalutazione dell’approccio
estremamente superficiale ai veri “alfabeti” visivi e multimediali che
stanno globalizzando la cultura del pianeta e il cui utilizzo è oggi
indirizzato, più che dai sistemi educativi, sostanzialmente dal marketing.
Così, "saper usare” un tablet o una LIM, seguendo l’istinto
o le istruzioni (senza magari avere mai imperato a tagliare una
fotografia!), non garantisce affatto consapevolezza “informatica”, come non la
garantiscono le “patenti di computer” basate su un uso prevalentemente da ufficio che se ne faceva nei
primi anni Ottanta e che qualcuno, a mio parere oltre ogni evidenza, ancora considera “di base”.
Mentre può essere un buon segno che nella scuola italiana si stia tornando a
parlare di informatica come programmazione.
Programmazione: cioè imparare fin da
piccoli che siamo noi umani a istruire le macchine su quello che devono
fare, e provare a vedere che cosa succede quando diamo queste istruzioni,
come risponde la macchina, se sono giuste o sbagliate.
Posto che il funzionamento delle macchine di
oggi - non di quelle di ieri e forse non di quelle di domani - cioè quello
che potremmo chiamare “pensiero digitale” è il linguaggio macchina,
che si esprime in codice binario o esadecimale
ed è conosciuto bene solo da una piccola parte degli informatici di professione,
esistono tanti linguaggi cosiddetti di alto livello che
consentono di istruire le macchine secondo modalità molto più simili a quelle di noi
umani, e alcuni sono perfettamente accessibili anche ai bambini.
Sto montando un video che ho
girato con bambini della scuola primaria che, durante il passato anno
scolastico, guidati dal prof. Giovanni Lariccia, hanno lavorato con il software Iplozero, una versione del
linguaggio di programmazione LOGO, su cui
qui ho già scritto alcuni articoli. E, oltre gli stereotipi con cui spesso vengono descritti, ho
visto bambini veri comportarsi da veri protagonisti, come succede sempre
quando, nella pratica educativa, si “resettano” i luoghi comuni e le routine
abituali e si fa leva sulla curiosità, la voglia di conoscere, di provare,
capire tutti insieme. Succede con i computer
come con le videocamere,
con gli insetti
del cortile come con i giochi corporei di espressione teatrale...
Continua…