Banalmente: non siamo magari un po’ stanchi di fare pubblicità gratis all’ultimo software delle multinazionali che – bontà loro! – aiuta la scuola ad adeguarsi all’ultimo trend di mercato, o di gridare allarmi per la serie coreana che fa male ai bambini che prima nessuno guardava e che adesso ovviamente guardano tutti, o di preoccuparci del costume diffuso delle famiglie di pranzare guardando ognuno nel suo telefonino invece che nel piatto o negli occhi degli altri commensali, come se fosse una mutazione genetica irreversibile? Non siamo stanchi di deprimerci, di sentirci impotenti di fronte a un mondo che ci appare sempre più fuori da ogni possibile controllo e che in realtà in gran parte costruiamo noi, tutti i giorni, con i nostri clic timidi e sfigati che però, uno per uno sommandosi a miliardi, fanno la fortuna di aziende che se per una settimana ci facessimo semplicemente gli affari nostri, probabilmente entrerebbero in una crisi tremenda?
Chiedo soprattutto agli insegnanti, agli educatori, a chi si occupa di bambini e ragazzi, i cui volti e sorrisi stiamo cancellando dalla società dell’informazione, facendoli crescere (per “proteggerli”!?) in un contesto sociale sempre più intriso di sospetto e paura, per poi discutere preoccupati in loro assenza dei loro problemi, dei nuovi crescenti “bisogni educativi speciali”, della necessità di medici e psicologi che assistano il loro crescente disagio (in costante aumento, chissà perché?)
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Dove e come seriamente è da vedere, ma bisogna farlo. Mettersi finalmente con impegno, convinzione, costanza - e soprattutto non disperdendo questo tipo di informazioni in miriadi di siti web, blog, gruppi sui social network, discussioni tra amici, tutti separati di loro come se non esistesse la Rete, ma con l’obiettivo preciso di raggiungere la massa critica necessaria – mettersi a far conoscere le buone pratiche che nella scuola e altrove rivelano una miriade di realtà belle, complesse, vive e sorprendenti; e poi le opere, gli scritti, i disegni, i video, i multimediali di bambini e i ragazzi, dalla cui diffusione e conoscenza – oggi potenzialmente più facile che mai, ma che ci stiamo colpevolmente auto censurando - l’opinione pubblica possa finalmente farsi una idea meno stereotipata delle giovanissime generazioni (altro che pinzillacchere come i “nativi digitali!”) e gli stessi nostri nostri figli e nipoti possano ricavare un po’ di autostima per quello che sono e non solo consumarsi dietro a modelli distruttivi di consumo e competizione a tutti i costi.
Qualcosa c’è, qualcosa si è tentato e non è riuscito, qualcos’altro magari da qualche parte funziona. Si tratta banalmente di usare la Rete per raccoglierlo, farlo più grande, funzionante, efficace, senza rassegnarci a un mondo di pagine web di scuole che sembrano l’esaltazione della burocrazia, di siti in rete tutti uguali fatti con lo stampino di pochi software rigidi e omologanti, di “tecnologia” che da una parte ci opprime con procedure sempre più cervellotiche e avvilenti a dall’altra ci offre comode app per ordinare una pizza!
Questo piccolo articolo non è un grido nel deserto, ma una esortazione alla cittadinanza attiva, che andremo a praticare anche in modo più diretto, incrociando post sui “social”, email, chiamate personali a questo e quello, tutto quanto si può mettere in campo per scuotere le persone e moltiplicare l’informazione, oltre il presente di paura e di scarico di responsabilità.
Perché si può fare, ne possiamo uscire migliori e anche, da subito, sentirci un po’ più forti e meno soli.