Mi
sono imbattuto ieri in un tutto sommato allucinante quanto acceso dibattito (ovviamente in
Facebook, e dove se no? Ogni nostro pensiero ormai vale solo se porta
soldini a Zuckerberg!) sul cosiddetto "pensiero computazionale",
da cui l'unica cosa chiara era che ognuno aveva in mente qualcosa di
diverso e, in definitiva, non
sapevamo di che cosa stavamo parlando.
Però tanti si sentivano di intervenire, fior di intelligenze
impegnante a ragionare, discutere, polemizzare sul nulla.
Uno
istintivamente pensa: ecco come mai in questo mondo, con il massimo
di strumenti di comunicazione della storia, le persone in realtà
comunicano sempre meno e le soluzioni
4.0 ai problemi del
pianeta sono i muri per
fermare i migranti, le
super bombe,
gli uomini forti e quant'altro.
Pimelia bipunctata, fotografata a Susa, Tunisia, il 26 marzo 2017 |
Al
di là delle frasi a effetto (suggestioni, che però da un po' la
gente, orfana di certezze, di fatto prende sempre più alle lettera)
pensavo che se invece di rincorrerci a citare Pinco e Pallo quando
per far ridere gli amici al bar hanno usato questo o quel termine,
facessimo funzionare un po' di più i cervelli nostri, mettendo
insieme quel tanto che sappiamo, la questione sarebbe evidente (e
qualcuno
mi risponda qui,
nei commenti di questo blog, per favore, se
pensa che stia sbagliando):
i
computer digitali non pensano,
ma eseguono
istruzioni o comandi
pensati dagli umani che li hanno programmati. Punto! Chi sa anche
solo qualcosina di programmazione,
possibilmente quella testuale, che non fa finta di essere altro
(magari perché si è deciso di chiamarla “coding”, che sa subito
di fregatura, come il “jobs act” o la “spending review!), anche
i bambini che hanno provato una volta a usare il linguaggio
LOGO
sanno che la sintassi
di queste istruzioni è estremamente noiosa e pedante, perché a
queste macchine bisogna dire tutto, ma proprio tutto, nei minimi
particolari, perché di loro sono stupide e non sanno affatto
collegare le cose e metterle insieme come facciamo noi.
Questo
è il significato ultimo della parola
“digitale”:
scomporre ogni possibile operazione in elementi sempre più
elementari, fino a ridurre tutto, testi, suoni, immagini, mappe
concettuali, videogiochi, ricerche in rete, dati meteorologici e
relative istruzioni d'uso a una raccolta immensa di 0 e 1, sì è no,
che se l'umano ha pensato bene ci restituiscono il meraviglioso
software che tutti i giorni usiamo, con pochi clic di mouse o tocchi
di dita. Dove le
interfacce di PC e telefonini
non sono affatto “digitali”, ma analogiche,
adattate cioè all'uso istintivo e non naturalmente pedante degli
esseri umani, adulti e bambini (ma con i tablet
se la cavano bene anche i gatti!)
Un tempo si diceva che la cultura dei nostri giorni è multimediale. Parola giustissima, che subito fa ragionare su quel mettere insieme il testo dei libri e dei giornali tradizionali, con le fotografie, la televisione, il cinema, la radio, gli stimoli visivi, sonori, interattivi degli aggeggi digitali che usiamo tutti i giorni. E Roberto Maragliano aveva coniato per i bambini nati negli ultimi decenni la definizione bellissima di “esseri multimediali”, a sottolineare come le nuove generazioni, essendo cresciute dentro un mondo in cui il sapere, la cultura e la comunicazione non hanno più un sistema di trasmissione privilegiato, come era un tempo il libro, naturalmente e senza problemi potrebbero vivere in modo attivo e consapevole la società dell'informazione. E magari potrebbero farlo non solo da consumatori, ma da produttori e protagonisti, man mano che a tecnologia mette a disposizione nuovi strumenti sempre più facili, potenti ed economici.
Porre
l'accento sul carattere
multimediale della mondo di oggi,
permetterebbe anche di fare piazza pulita con tutta una serie di
contrapposizioni
generazionali assurde e
prive di senso, che fanno male ad adulti e bambini, perché sarebbe
evidente che in questo
questa cultura multimediale tutti ci siamo nati,
nella nostra società occidentale, almeno a partire dagli anni
Sessanta del secolo scorso. Cioè, i cinquantenni
di oggi (e anche molti nati prima), come i bambini
che nascono adesso, fanno ugualmente parte della società
dell'informazione, anche
se a causa di strumenti culturali inadeguati spesso hanno il
problema di mettere d'accordo i libri che hanno letto con la
televisione che hanno visto e con i telefonini che hanno comunque sempre in mano.
Invece
– e altro senso non trovo che quello di creare confusione, del
vecchio “divide et impera” per cui mentre noi ci incasiniamo su
una infinità di sciocchezze e non ci proviamo neanche a usare
insieme la potenza di una tecnologia che ormai è nelle mani di
tutti, quelli che oggi comandano la politica e il mercato continuano
a fregarci! - oggi si
spreca a sproposito, la parola “digitale”,
coniando una serie di definizioni che in realtà sono solo slogan vuoti e non
significano nulla: “nativi
digitali”, “cultura digitale”,
“cittadinanza digitale”... ???
Tutte
formulazioni
che, invece che chiarire, alimentano
all'infinito equivoci e confusione,
invece che unire dividono
(ma non è la stessa cosa
che sta succedendo fuori nel mondo, in
politica? Sarà un caso?)
In
una prospettiva
multimediale,
così come è naturale per i bambini (che da sempre semplicemente
prendono gli elementi della propria realtà e
ci giocano),
scavare per terra con le mani alla ricerca di insetti e bacherozzi,
disegnare con i colori a dita, leggere un libro di carta, fare un
video con il telefonino e
comunicare via web con gli amici che stanno i Cina, sono
semplicemente momenti diversi di una stessa realtà, che è corporea,
fisica, e anche “digitale”, perché no, ma è semplicemente la
realtà in cui si vive,
in cui tutti gli elementi vanno “naturalmente” al loro posto,
senza che qualcuno dall'esterno ci venga a forzare, a dire come
dobbiamo fare e come dobbiamo pensare, facendoci percepire il nostro
disagio
come un senso di colpa.
Cultura
multimediale, cultura della società dell'informazione, cultura
dell'inclusione. Troppo facile?
Sto
leggendo un bellissima raccolta di Sherlock
Holmes, 3 euro e 60 in
versione originale, un inglese su cui tutto sommato riesco a non
impiantarmi. Per cui traduco al volo uno scambio di battute:
«Voi
vedete tutto!»
«Io
non vedo più di voi, ma mi sono allenato a prestare attenzione a
quello che vedo!»